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Quell’incontro che può aprire alla missione

La riflessione di Padre Massimo Casaro* in occasione della Giornata Mondiale Missionaria 2022

Vorrei iniziare con una domanda un po’ provocatoria, ed è se la missione, oggi, è ancora possibile e a quale condizione. È certo che i modelli del passato non funzionano più, e quelli del presente non sembrano all’altezza del compito.

Forse perché non è solo un problema di modelli, di strategie, come se fosse possibile risolvere il problema moltiplicando gli strumenti, aumentando gli investimenti, elaborando discorsi persuasivi.

No, il problema, ma più ancora la sua “soluzione”, sta altrove, precisamente nella fede, nel nostro modo di credere, nel nostro stile di credenti. Quel modo di credere che non divide, ma che sa tenere insieme Dio e l’uomo, ciò che è di Dio e ciò che è dell’uomo, ciò che è per me e ciò che è per l’altro. Scrive Paolo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia.

Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,13-18). È, in altre parole, sufficiente credere e incontrare. Meglio, credere nel momento stesso e per la stessa ragione per cui si incontra. Se, infatti, ci si potesse veramente incontrare, ci si potesse veramente amare senza credere, il cristianesimo si ridurrebbe a una suppellettile, a un orpello privo di importanza, superfluo. Perché la fede, la fede cristiana ha a che vedere con l’Origine della vita.

Quella semplice, quotidiana che ogni genitore s’impegna a riconsiderare ogni volta che guarda suo figlio. L’incredulità, l’indisponibilità a credere, il rischio di contraffare la fede, di ridurla entro schemi, modelli che le sono estranei, ci accompagneranno sino alla fine. Per questo Pascal ha scritto che “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo”. In agonia, in lotta, contro tutto ciò che, negando lui, nega noi stessi.

Lui è il nostro difensore, la nostra garanzia. Il baluardo. È da qui che dovremmo sempre ricominciare quando pensiamo alla missione, parliamo della missione, agiamo da missionari. Lui è il suo principio, il suo oggetto, la sua permanente condizione. La sua ispirazione. La sua garanzia. In fondo qualunque cosa pensiamo, diciamo o facciamo, pensiamo, diciamo o facciamo sempre e solo lui. Perché lui è la via, la verità e la vita. Scrive Ambrogio: “Parliamo dunque del Signore Gesù, perché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la Parola di Dio. Infatti è stato scritto anche questo: Apri la tua bocca alla parola di Dio. Chi riecheggia i suoi discorsi e medita le sue parole la diffonde. Parliamo sempre di lui.

Quando parliamo della sapienza, è lui colui di cui parliamo, così quando parliamo della virtù, quando parliamo della giustizia, quando parliamo della pace, quando parliamo della verità, della vita, della redenzione, è di lui che parliamo”. Se nulla traspare, se le persone, quando ci incontrano, incontrano solo noi stessi, tutto quello che succede non è vero, non è cristiano. Anche la teologia non è cristiana. È solo un discorso, come le cose che facciamo sono soltanto cose, e le persone che “convertiamo” sono soltanto adepti. La ragione, il principio deve sempre agire, deve sempre mostrarsi, dobbiamo sempre permettergli di farlo e nei modi più semplici, meno programmati.

Quei modi che sono rigorosamente a disposizione di tutti, in ogni tempo e in ogni luogo. In ogni situazione. In ogni rapporto. Perché Dio non lo si afferma quando si riflette su di lui, quasi fosse un oggetto, o quando si parla o si scrive su di lui, quasi fosse un argomento, ma quando si vive in ragione di lui, nel suo nome. Questo è importante, decisivo. La relazione, il rapporto con lui è importante, decisivo. La riflessione viene dopo.

Accompagna, deve accompagnare, per essere autentica, radicata nella verità, l’opzione esistenziale con la quale ciascuno afferma il principio che sta all’origine dello stile con il quale ha deciso di vivere la vita. Lo stile della sua relazione con l’altro e con tutte le cose.

Mi sembra, allora, corretto affermare che quelle “opere buone” nelle quali Gesù si riconosce, sono prima di tutto ed essenzialmente un vero e proprio atto di fede, un vero e proprio atto d’amore. Amore di Dio che traspare dalla qualità dei rapporti, di tutti i rapporti. Sono il modo, direi l’unico modo, in cui ogni essere umano dichiara il suo legame con Dio. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Pavel Florenskij parla di ethos liturgico per indicare il luogo originario in cui i cristiani imparano la Vita. Quella di Dio, perciò la loro, quindi la vita di tutti, del mondo intero. Nella fede cristiana, nulla può essere autenticamente pensato e compiuto che non sia, alla fine, un rendimento di grazie. Un’Eucaristia.

 

*direttore del Centro Missionario della Diocesi di Novara

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