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Il dopo voto e la difficile strada per affrontare le sfide del Paese

di Pier Luigi Tolardo

Prima di tutto rispetto per la volontà degli elettori che è la base della democrazia anche quando può lasciare perplessi. Rispetto anche per chi ha ritenuto di non andare a votare forse a causa di una legge elettorale che, ancora una volta, ha privato l’elettore della possibilità di scegliere i propri rappresentanti lasciandogli solo quella di ratificare i parlamentari indicati dai vertici dei partiti.

Le leggi elettorali troppo spesso scritte nel presunto interesse di una parte, dovrebbero innanzitutto favorire la partecipazione senza la quale anche i vincitori perdono di valore e di autorevolezza.

Chi ha avuto più consensi così come l’opposizione abbiano ben chiaro che, in un momento così difficile, non potranno sottrarsi al giudizio quotidiano di imprese, sindacati, enti locali e dello stesso mondo cattolico. Giudizio che dovrà essere severo se si dovesse allargare troppo la forbice fra le promesse – fin troppo generose e, talora, mirabolanti – e la realtà delle scelte concrete.

L’Italia è in Europa e al giudizio e al confronto con le istituzioni comunitarie non si potrà sempre e solo sfuggire gridando al complotto e lamentando presunte ingerenze. Servirà la fatica del dialogo, la serietà degli argomenti e l’affidabilità degli interlocutori.

Si esce dalla fase del Governo di unità nazionale, incarnata nel volto serio di Mario Draghi. Gli elettori – significativamente – hanno voluto premiare la maggiore forza di opposizione, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che fin da subito dovrà dedicarsi all’esigenza di tenere unita la sua coalizione. Lega e Forza Italia hanno un peso minore. Hanno dimostrato interessi e orientamenti in tensione con quelli del partito più importante del centrodestra e sono stati penalizzati dal voto. Forza Italia sopravvive soprattutto grazie a Berlusconi che ne rappresenta anche il maggior limite. Nella Lega, è oggettivamente in crisi la leadership di Matteo Salvini che deve scontare il crollo dei consensi rispetto al 2018 e, quindi, seppellire il sogno di un suo primato sulla destra italiana.

Per chi ha perso, nelle urne, si apre la sfida ancora tutta in salita per trovare una sintesi che tenga insieme le tre forze di opposizione del nuovo Parlamento. Il Pd di Enrico Letta sarà costretto ad aprire una fase di dibattito interno. Il partito, dalla fondazione, è ancora alla ricerca di un’identità più definita fra la Realpolitik delle compatibilità economiche e la vocazione a rappresentare le esigenze dei ceti popolari.

Calenda e Renzi – ormai “Terzo Polo” solo nelle ambizioni un po’ velleitarie – al momento, più che un soggetto politico strutturato, sembra un cartello momentaneo, suggerito dalle esigenze della legge elettorale. Giuseppe Conte ha goduto del carisma indubbio del Premier della pandemia e sembra la versione aggiornata di un peronismo all’italiana che dà voce alla rabbia di una parte dell’ Italia meridionale determinata a pretendere protezione anche a carico della spesa pubblica. La difesa intransigente del Reddito di Cittadinanza ne è l’esemplificazione più evidente.

Le tre opposizioni potranno coordinare le loro politiche? E, se sì, quando e come? Senza un’opposizione più coesa, nelle Camere e nel Paese, non esiste la possibilità concreta di un’alternanza nemmeno fra cinque anni. E’ sempre stato così nella non più breve storia politica e parlamentare di quella che, a torto o a ragione, viene definita Seconda Repubblica. Tutti poi – maggioranza e opposizioni – devono fronteggiare la sfida più grave. Il governo di unità nazionale non esisterà più ma sarà indispensabile riuscire a dialogare costruttivamente per arginare crisi energetica, carovita e guerra e non scivolare in una deriva dagli effetti inediti e disastrosi.

 

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