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Non è un paese per mamme?

di Sara Sturmhoevel e don Gianluca De Marco*

Nel 2021 in Italia sono nati meno di 400mila bambini: l’1,3% in meno rispetto al 2020 e il 31% in meno rispetto al 2008. Alla vigilia della Festa della Mamma del prossimo 8 maggio, i dati recentemente pubblicati dall’Istat sono un campanello d’allarme riguardo alla sostenibilità per il Sistema-Paese di un quadro della natalità così asfittico. Non solo. Richiedono forse anche una riflessione sul contesto – non solo economico – che porta le nostre giovani a posticipare sempre di più l’età nella quale avere un figlio e, sempre più spesso, a decidere non averne.

È una riflessione che tocca non solo gli aspetti economici (il lavoro precario, la difficoltà a trovare alloggi, i curricula formativi dilatati), ma prima ancora e in maniera più profonda, le aspirazioni, l’immagine di sé, i propri progetti e i propri sogni. Volendo usare un vocabolario “pastorale” è anzitutto una questione vocazionale. Che interpella tutta la comunità. Perché se il nostro non è un Paese per mamme, allora non è un Paese che scommette sul futuro.

E se questo è un tema che non tocca solo politici, economisti o giuristi del lavoro, ma riguarda da vicino tutte le nostre comunità, allora per prima cosa è necessario dare uno sguardo semplice al nostro quotidiano cercando di capire quali atteggiamenti o comportamenti possono contribuire a rendere la scelta di diventare mamme così difficile.

Quante volte è capitato che un parroco rinunciasse a coinvolgere una mamma per un servizio pastorale «perché ha un bambino e quindi non avrà tempo»? O quante volte non abbiamo invitato a partecipare a un appuntamento in parrocchia una famiglia “numerosa” immaginando che avesse già troppo da fare? È l’altro lato della medaglia di ciò che avviene nel mondo del lavoro, dove troppo spesso purtroppo una mamma – al netto di capacità e competenza – è l’ultima cui si pensa per una promozione o per affidare maggiori responsabilità. La strada – certo, impegnativa – per promuovere la maternità sarebbe quella di iniziare a cambiare davvero i tempi e i modi delle nostre attività per renderle a “misura di mamma” e di famiglia. Ma il nodo più grande riguarda l’accompagnamento dei giovani che sognano una vita di coppia – ragazze e ragazzi – in un discernimento vocazionale che non releghi la maternità ad una semplice opzione tra tante, ma sia il cuore del progetto condiviso.

Incontrando e ascoltando questi giovani (anche quelli “più vicini”, cresciuti in oratorio) sempre di più si registra come il baricentro del loro pensarsi insieme sia del tutto appiattito sulla loro relazione. Prima c’è il vivere insieme, sperimentare ritmi e spazi ridefiniti attorno alla dimensione di coppia. L’impegno (che, è bene ribadirlo, è sempre oggettivamente più arduo) a trovare una stabilità economica. Poi si penserà a divenire genitori. Dopo e forse. In una dinamica che in qualche modo li allontana dall’idea di pensarsi come parte di una comunità: che li porta – come direbbe il nostro vescovo Franco Giulio – “a chiudersi nell’appartamento”.

Perché è un modo di pensare se stessi come coppia, che chiude la porta a quella generatività che è parte essenziale del matrimonio cristiano e di cui la scelta dell’essere genitori è una (non la sola) delle forme più belle. E che è anche un’inesauribile fonte di vitalità e di alimento per la qualità della relazione di coppia stessa. Senza la quale il rischio è che – lentamente o velocemente – si avvizzisca, perché in qualche modo si avvita su se stessa, senza sapersi aprire al futuro.

* Ufficio diocesano per la pastorale giovanile

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