Ricorre il quinto centenario del miracolo della Sacra Costa. Un momento di fede, devozione e tradizione che il nostro giornale sottolinea con due pagine sulle quali ospitiamo un intervento del nostro vescovo, Mons. Franco Giulio Brambilla e uno scritto del compianto mons, Germano Zaccheo. Lo scritto di “Don Germano”, come ancora è menzionato e ricordato in diocesi, è tratto dal libro “I Lümineri. La festa della Pietà di Cannobio” edito da Interlinea edito nel 1995 e poi ripubblicato nel 2017 in occasione del decennale della sua morte. Pubblichiamo qui di seguito il brano pubblicato dal nostro giornale.
Attingo alla memoria. Una memoria commossa, forse troppo coinvolta, per essere testimonianza scientifica. Ma non importa. Ero bambino, non ancora chierichetto, quando per la prima volta – così almeno mi pare di ricordare – ho partecipato coscientemente alla festa di popolo che si svolge a Cannobio, la sera di ogni 7 gennaio. Quella sera il letto sembrava meno gelido e il buio meno inquietante: dai vetri della finestra, già un poco appannati, trapelava, tremula, la luce colorata dei lüminéri. Mi faceva compagnia e oggi la rievoco con struggente sentimentalismo.
Nel V centenario del Miracolo della Sacra Costa pubblichiamo per ampi stralci un testo di mons. Germano Zaccheo che ripercorre i suoi ricordi di bambino alla festa della Santissima Pietà. Originario di Cannobio, vescovo di Casale e per tanti anni condirettore del nostro giornale, don Germano propone un’immagine viva e profonda di una devozione che nasce e si alimenta nel focolare domestico.
La nonna aveva lavorato tutto il giorno a pulire verdure: d’ogni qualità. E per ore e ore la pentola aveva borbottato, spandendo un odore irripetibile: quello della boba (minestrone di sole verdure cotto a fuoco lento sulla stufa a legna) e quello delle luganigh, così acre per le spezie e l’aglio eppure così invitante. L’ora della cena sembrava non giungere mai.(…)
Poi finalmente, quando calava la sera e i lüminéri venivano accesi alle finestre e ai balconi, prima di andare alla grande celebrazione della Santa Pietà, ecco il piatto fumante di boba e quello ancora più atteso delle luganigh con le patate bollenti o i crauti.
Basta. L’attesa era stata lunga ma il pranzo doveva essere breve. Quasi in piedi, come gli antichi ebrei la sera della Pasqua, anche perché le campane era da tempo che suonavano e quelle petulanti di Santa Pietà avevano tutta l’aria di dire: fate in fretta che non c’è più posto. In effetti quando si giungeva, infagottati come per un viaggio al Polo Nord, nella ghiacciatissima chiesa di Santa Pietà la si trovava già piena: anzi assiepata. I preti, per quella sera, non vestivano gli abiti rutilanti della festa: solo cotte bianche sulle lunghe vesti nere. Più tardi avrei capito che era una serata penitenziale. Cantavano in latino. Parole solenni ma incomprensibili. Eppure restavano nell’orecchio. (…) Poi il prevosto raccontava, tutti gli anni, i particolari del miracolo. Il sonno, per la verità, era in agguato. Tuttavia, non solo per noi bambini, il racconto ci risvegliava. Un racconto che portiamo nel cuore per tutta la vita: una vecchia casa di oltre quattrocento anni fa. Loro dicevano che era un’osteria. Tommaso il nome dell’oste. Antonietta quello della figlia minore che sale la scala con un lume. E si spegne tre volte. Poi, impaurita, guarda il quadretto della Santa Pietà: sì, quello là al centro dell’altare, tra lumi, fiori, ori e marmi. Quel quadretto, così raccontava il prevosto, in quella lontana sera era pieno di sangue… E il racconto proseguiva, mentre i nostri occhi erano sbarrati. Anche di meraviglia.
E poi la piccola costicina raccolta dal vecchio prete in un calice. E le fiaccole che si accendevano per le strette vie d’allora e si fa una gran processione verso San Vittore. La gente accende lumi lungo le strade, racconta il prevosto. E così nasce la “festa dei lüminéri”.(…) La predica è finita. È tardi. La gente esce in festa. I lüminéri, sul lungolago o per le strettoie che salgono tra una casa e l’altra, si muovono al vento: qualcuno brucia creando panico.
È questo il grande ricordo della mia infanzia. Stretto alla mano della “zia Carolò” (la mia mamma è appena morta e il grande freddo lo porto ancora nel cuore), vengo trascinato verso casa tra una folla vociante e incuriosita. (…) La gente scorre via nel freddo invernale, in una grande popolare letizia. (…)
Ma io vado a casa. Sono troppo piccolo per fare le ore piccole, da un’osteria all’altra. Presto sarò a letto. E non farà freddo come le altre sere. E anche il buio non mi farà paura, almeno questa sera.
È la sera dei lüminéri e le loro fiammelle tremolanti mi cullano in pace. (…)