Consolate, consolate il mio popolo

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Messa Crismale
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L’Omelia integrale della Messa crismale di monsignor Franco Giulio Brambilla.

Il vescovo consacra l’olio dei catecumeni, il sacro crisma e l’olio degli infermi.

Carissimi, cercando in questi giorni una parola sapida, che portasse il balsamo della consolazione per la nostra gente e per il nostro ministero, è risuonato più volte nel mio cuore l’inizio del libro del secondo Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo…!» (Is 40,1-11). Per trovare la traccia dei pensieri da dirvi stamani – dopo aver incontrato circa la metà di voi nel ritiro di Quaresima in tre vicariati – ho riletto il testo del profeta postesilico e mi è sembrato che parlasse direttamente a noi. Si può suddividere il brano in cinque parti di intensa bellezza. Ascoltiamolo direttamente: «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati».

Il profeta parla al piccolo “resto” che è appena tornato dall’esilio e che fatica a scorgere il mandorlo in fiore di un’incerta primavera: «Consolate, consolate il mio popolo…! Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta». Questa è la prima parola che dobbiamo annunciare alla nostra gente: la parola della consolazione, il compimento della tribolazione. Il nostro ministero c’è per questo, per essere un balsamo di consolazione, che lenisce le ferite, guarisce i peccati, rincuora le tristezze, ristora le solitudini, annuncia con cuore grande che il travaglio dura un tempo breve. Anche se a noi sembra interminabile, il peccato e le sue conseguenze – dice il profeta – sono già scontati e ora giunge il tempo della misericordia e della consolazione. In questi primi vent’anni del terzo millennio abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità: né lo shock delle torri gemelle, né la grave crisi economica del 2008 hanno smosso più di tanto i nostri costumi di vita. C’è voluto un nemico invisibile, e da cui è impossibile difendersi se non chiudendoci dentro le nostre case, perché fossimo svegliati dal sonno. La consolazione che dobbiamo annunciare è soprattutto per chi ha perduto irrimediabilmente gli affetti più cari, non ha più visto le persone amate, senza poterle salutare. La consolazione è per i ragazzi, adolescenti e giovani, che hanno smarrito gli anni più belli dei passaggi critici della vita. La consolazione è per chi ha perso il lavoro e fatica ad arrivare a fine mese, per gli anziani che sono costretti a stare rinchiusi soli, e che non possono neppure talvolta venire alla messa. Chiedo ai sacerdoti di star vicino a tutti costoro, di inventare un gesto pratico di consolazione e di prossimità. Non smettiamo notte e giorno di essere ministri della consolazione, di parlare al cuore di Gerusalemme. Non perdiamo il contatto con le persone, con le famiglie, con i giovani, con gli anziani: essi aspettano la nostra parola che riscalda e rincuora. Continua il profeta: Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». La seconda parola del profeta postesilico è affidata a un grido: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio». È la voce dell’avvento, che annuncia la venuta del Signore, che promette la sua venuta soprattutto dopo l’esilio dalla patria. Essa ci chiede di “preparare la via”, di “innalzare ogni valle”, “abbassare ogni colle”, riempire le buche dei “terreni accidentati”, e di rendere meno “scoscese le vallate”. Cari sacerdoti: per essere credibili, dobbiamo lasciarci consolare dal Signore. Consoliamoci a vicenda, andiamo a trovare i confratelli soli, scambiamoci parole edificanti, diamoci una mano per uscire dalla palude di quest’anno. Lo dobbiamo ai nostri sacerdoti che sono mancati per Covid, a don Aldo, don Paolo, don Giuseppe e al diacono Dalmino; lo dobbiamo a quanti hanno sperimentato sulla propria carne la malattia in un modo più o meno doloroso. Soprattutto però dobbiamo chiederci, come il popolo che torna dall’esilio: che cosa voglio mettere in salvo del mio ministero, del mio modo di pregare, di predicare, di celebrare, di stare nel servizio pastorale, di come mi prendo cura del mio tempo e del mio corpo e della carne dei fratelli che mi sono affidati? Da qui a giugno, mentre usciremo “a veder le stelle”, è necessario che ci interroghiamo seriamente partendo da queste domande radicali: che cosa portiamo nella nostra barca per il ministero degli anni futuri? C’è stata un’opera di purificazione e di ritorno all’essenziale? Non possiamo aspettare la fine della pandemia, per tornare come prima come se nulla fosse accaduto. Continua il secondo Isaia: Una voce dice: «Grida», e io rispondo: «Che cosa dovrò gridare?». Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre. Il profeta afferma che la nostra parola di consolazione ha da essere un “grido”, che però sembra spegnersi nella nostra gola. E io rispondo – dice il profeta e ciascuno di noi al suo seguito -: «Che cosa dovrò gridare?». Sì, non sappiamo cosa dire alla nostra gente! Chi non ha sentito, in questo lungo e interminabile anno, la povertà della sua parola, quando ha cercato di venire in soccorso alla Parola alta e sublime di Dio, con i mezzucci della propria chiacchiera, dell’omelia improvvisata e non preparata, della catechesi trascurata, delle paturnie ideologiche che ci vedono schierati tra chi ha ridotto il cristianesimo a un solidarismo verniciato di elemosina e chi si rifugia nel fascino discreto della sacrestia per giustificare le proprie manie? La parola di Dio, viva e tagliente, ci sfugge: dobbiamo riconoscerlo francamente, non siamo più in grado di predicare la fragilità della nostra vita! «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del campo»: non siamo più capaci di dire che l’esperienza del nostro limite è la nostra grandezza, e la nostra dignità umana è vivere in pienezza la nostra fragilità, come ci ha detto in modo insuperabile Pascal. Vanno di moda gli estremisti: c’è chi predica un cristianesimo così incarnato che è ridotto alla felicità del paese di Bengodi, e c’è chi con in mano l’ascia apocalittica annuncia sventure per gli altri, mentre spesso vive una vita borghese. Non abbiamo più la semplicità del cuore per far sentire la bellezza della parola profetica: «Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre». Dobbiamo annunciare la fedeltà della parola di Dio: essa dice che la fragilità e la miseria dell’uomo, accolte con umiltà e amore, sono la sorgente della sua grandezza e dignità, perché lì vi opera il Signore. E, finalmente, siamo al centro del “lieto annuncio” dell’alleanza antica: Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Il profeta ci fa salire sul monte per annunciare le liete novelle che mettono le ali ai piedi del popolo che ritorna a Gerusalemme. Occorre salire, bisogna alzare la voce per annunciare la “lieta speranza” della risurrezione! Non dobbiamo dimenticare che è stato proprio questo testo profetico che ha fatto da motore all’annuncio del Regno da parte di Gesù e al suo vangelo di speranza. Ho tentato di raccontarvelo negli auguri pasquali che vi ho inviato con le parole del sommo poeta Dante: «“Spene”, diss’io, “è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto”» («Dissi: “La speranza è attendere con certezza la beatitudine futura, che viene dalla grazia di Dio operante nell’agire virtuoso dell’uomo”»). Dante traduce poeticamente la definizione di speranza del nostro Pier Lombardo, che egli forse conosceva solo indirettamente da San Tommaso «Spes est certa expectatio futurae beatitudinis, veniens ex Dei gratia et ex meritis praecedentibus» (Summa Sententiarum, III, 26) e che pone accanto al Dottore Angelico nel canto X del Paradiso. Dobbiamo annunciare la risurrezione di Gesù come la beatitudine futura, la vita nuova che opera già qui in mezzo a noi nell’agire operoso e meritorio dell’uomo. Forse possiamo riconoscere francamente che in questi anni non abbiamo annunciato con cristallina trasparenza la risurrezione di Gesù. Lo dico anzitutto per me che ho scritto un libro sulla risurrezione e sono stato animatore del Convegno di Verona sul tema: “Gesù risorto, speranza del mondo” (2006). Diceva papa Benedetto a quel Convegno: «Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplo¬sione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé». Sapremmo noi dire con le nostre parole la ricchezza abbagliante di questa spiegazione luminosa di papa Benedetto? Occorrerà forse trovare linguaggi nuovi e nuove esperienze per ridire la speranza cristiana. Lasciamoci per l’ultima volta istruire dal profeta: Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». Il profeta postesilico dice che il Signore viene in modo nuovo! Dio viene con il suo braccio disteso e salutare, porta al suo popolo la ricompensa del suo lungo soffrire durante l’esilio. Questo intervento è descritto con la metafora pastorale. Con queste parole vorrei rinnovare l’augurio pasquale per tutti noi! Sentite che bel testo: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». Cerchiamo di essere pastori con questo animo e con questo stile: i primi ad esserne contenti saremo noi. La gente ci vorrà bene solo se noi vorremo bene alla gente così. Il linguaggio nuovo per dire la speranza cristiana passa prima attraverso una nuova esperienza dell’essere credenti e preti. Ho pensato molto come dirvelo con una lingua rinnovata e mi è venuto alla mente il testo che ha segnato un decennio della mia vita. Si trova poco più avanti nel Discorso di Verona di Benedetto XVI. Dice così il Papa: «È ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). È stata cambiata così la mia identità essenziale, tramite il Battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale». Uno “spazio nuovo di esistenza”: questo vi auguro sia la Pasqua del 2021!

+Franco Giulio Brambilla Vescovo di Novara