Non dovrebbe essere difficile immaginare un 2021 migliore del 2020. Forse non “tutto andrà bene” ma che ci si incammini verso il “meglio” sembrerebbe persino scontato. Anche se non garantito. Già una volta ci si era illusi di aver superato la crisi. In estate, sembrava di aver chiuso il capitolo peggiore per ricominciare una vita normale. Noi stessi, volendo raccogliere le immagini della prima fase della pandemia, abbiamo pubblicato un libro con un titolo ottimista: “l’abbiamovissutacosì”, utilizzando – appositamente – il passato prossimo per dare conto di un capitolo infausto ma sul punto di chiudersi. Invece, continua la guerra (perché questa è una guerra) con morti, feriti, classi sociali cancellate, economie pericolanti e fiducia ai minimi termini. E, come in tutti i conflitti, intere categorie che si trovano ai margini della miseria mentre pochi – qualche volta senza troppi scrupoli – riescono ad aumentare il volume d’affari e la propria ricchezza.
Non a caso, con le industrie in ginocchio, la borsa è cresciuta in volumi d’affari e in dividendi positivi. Quando si pensava che i problemi potessero risolversi con i monopattini e aggiungendo le rotelle ai banchi di scuola, è arrivata la cosiddetta “seconda ondata” con esiti terribilmente peggiori della “prima”. Crudeli gli ultimi mesi dell’anno scorso. Hanno compromesso – e, qualche volta, sbriciolato – certezze che si credevano inattaccabili. Il virus ha aggredito vite umane e relazioni sociali, abitudini quotidiane e assetti produttivi, rapporti affettivi e relazioni internazionali. Nell’anno dell’epidemia, la paura e l’incertezza hanno fatto affiorare molte delle vulnerabilità strutturali in cui versa il Paese. Il virus ha aggredito una società che era in debito di ossigeno e già si stava ripiegando nel proprio individualismo. Spesso, per salvaguardare la vita si è dovuto sacrificare l’economia. Tutti in casa, senza lavorare ma anche senza stipendio (o quasi). E, certo, qualcuno ha patito più di altri. La politica ha scelto di distribuire le risorse a disposizione in forma assistenziale piuttosto che creare le condizioni per “un lavoro per tutti”, come da tempo insiste Papa Francesco I bonus e i sussidi hanno calmierato le difficoltà delle imprese e di molte famiglie ma il soccorso più concreto e più costante è venuto dal volontariato. Le associazioni raccolte nel nome di sant’Egidio, i francescani, le Caritas e le persone di buna volontà del territorio si sono ritrovate con il triplo delle richieste di aiuto e a ciascuno hanno trovato il modo di rispondere adeguatamente. E tuttavia, “non di solo pane vive l’uomo”. Il distanziamento fisico è fra le conseguenze più devastanti di questa pandemia perché rischia di trasformare le comunità in un insieme di singoli che – tutt’al più – si contattano via social, in streaming. Sotto una campana di vetro, metri d’intervallo fra l’uno dall’altro. Separati. E soli. Riprendersi i valori della comunità, del dialogare uno accanto all’altro, del progettare e del proporsi per iniziative… Ecco: recuperare i modelli dello stare insieme è l’augurio che ci si deve rivolgere in questo avvio di 2021. Alcune soluzioni, prese in conseguenza del dilagare del virus, saranno probabilmente praticabili anche in tempi normali. Aumentare il tempo di lavoro in smart working sarà una soluzione che le aziende seguiteranno ad adottare, con risparmio di tempo e di energie per dipendenti e imprese. Ma non tutta la catena della produzione potrà essere assicurata dai “clic” sulla tastiera del computer. L’allontanamento fisico comporta, in qualche modo, anche un allentamento dei vincoli umani che fisici non sono. Così come l’insegnamento a distanza, in alcune circostanze, sarà da riproporsi. Una lezione su Dante Alighieri potrà essere ugualmente efficace in presenza, in aula o dalla propria scrivania, in casa. Ma, certo, per fisica, chimica, matematica sarà inevitabile un rapporto più diretto fra professori e alunni. E, fra tutti, quelli che hanno maggior bisogno di contatti fisici sono i bambini. Loro hanno necessità di giocare insieme, vivere in gruppo, fare squadra e considerarsi parte di un tutto che funziona se esiste il contributo di ciascuno. Sono stati obbligati “a prendere le distanze”, nel proprio alloggio quando il lockdown è stato totale e alle scuole d’infanzia quando c’è stato un barlume di apertura. Non passarsi la penna o la gomma, non toccarsi, disinfettarsi continuamente e vedere nel compagno un possibile portatore di contagio da cui guardarsi significa eliminare ogni spinta di altruismo e di collaborazione. Vivere “da separati” non è utile. Imparare a vivere in società non è una materia di studio ma s’impara a scuola. Dunque: che si possa tornare a proporre la collaborazione fra gruppi di giovani e meno giovani è l’autentica speranza per questo nuovo anno.