In un periodo così particolare, drammatico se non tragico, come quello che viviamo, dobbiamo riuscire tutti a guardare il Bene in tutte le sue forme, non per consolarci, ma per trovare da cristiani, cittadini e studiosi nuovi stimoli per mantenere vitale e reattivo il sistema di solidarietà che è la città di Novara con il suo territorio. Una Novara colpita, attonita, disorientata che continua però a vivere la sua quotidianità con le fatiche e le fragilità senza spegnersi, ma con forza e coraggio decide di rimanere accesa.
Oggi questi dati sono sotto i riflettori perché mercoledì si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una giornata che non dovrebbe esistere, che è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, scelta da un gruppo di attiviste in ricordo del brutale assassinio nel 1960 delle tre sorelle Mirabal considerate esempio di donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leonidas Trujillo, il dittatore che tenne la Repubblica domenica nell’arretratezza e nel caos per oltre 30 anni. In Italia la ricorrenza viene ricordata solo dal 2005, ma già due anni dopo oltre 100.000 donne scesero in piazza a Roma, senza alcun patrocinio politico. In pochi anni l’attenzione e le iniziative sul fenomeno sono cresciute. Come l’attenzione della stampa, d’altra parte, anche se su questo versante davvero molto ci sarebbe da dire e da fare. La retorica mediatica per esempio investe da anni su parole come “impegno”, “battaglia”, “denuncia”. Ma è chiaro che serve di più. La violenza di genere è un fenomeno connaturato nell’identica’ delle nostre società, nei rapporti fra uomo e donna, provare ad arginarlo significa allora aprire una rivoluzione culturale che coinvolga donne e soprattutto uomini. Una rivoluzione pedagogica e di pensieri. Perché gli interventi normativi da soli non bastano. Sono troppi i vuoti della politica e dello Stato. È troppa l’inadeguatezza. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. L’assegnazione delle risorse ai centri antiviolenza, sempre promessa, è eternamente in ritardo. Paradossalmente però crescono i finanziamenti a pioggia, ovvero i soldi elargiti dallo Stato a chi non è propriamente un centro, ne’ possiede le competenze per gestire il tema della violenza. A mancare sono inoltre le soluzioni domiciliari per chi fugge dalla violenza compiuta dentro le mura domestiche. E poco si investe sulla preparazione e la formazione delle forze dell’ordine e del personale socio sanitario, anche se negli ultimi anni carabinieri e polizia hanno fatto significativi e importanti passi in avanti. C’è (più che mai in questo periodo di pandemia) uno scenario di stasi che blocca le misure di contrasto e indebolisce ogni forma di intervento sul territorio. Il 25 novembre, allora, non serve solo a ricordarci quante donne sono cadute vittime di questa piaga mortale che è la violenza di genere, ma serve ad aprirci gli occhi su quello che non si ha il coraggio di fare. Per celebrare questa giornata dobbiamo essere consapevoli che dietro ogni numero e ogni dato che leggiamo c’è l’assenza preoccupante della società. Restituire un senso a questa data significa allora farla rinascere riempiendola di significati reali. Anche se il tema rimane comunque conflittuale, permangono profonde divergenze su come riconoscere la violenza, come prevenirla, punirla e persino definirla all’interno dei sistemi normativi e giuridici comuni. L’inasprimento delle leggi per chi si macchia di questi orribili delitti nel nostro Paese non è riuscito ad arginare il fenomeno. Le donne che lavorano nei Centri antiviolenza lo dicono da tempo, l’apparato sanzionatorio interviene alla fine della catena delittuosa e comunque non costituisce un deterrente efficace. Bisogna intervenire all’origine del fenomeno. Siamo tutti convinti che necessiti un cambiamento culturale che deve partire dalle agenzie culturali – famiglia e scuola in primis – con il coinvolgimento di tutti. Che si debba diffondere un’educazione basata sulla conoscenza e sul rispetto dei generi, sulla capacità di gestire ed esprimere le emozioni, sull’idea paritaria e rispettosa del prossimo, non improntata su aspettative stereotipate che rappresentano le bambine tranquille e serene e i bambini irruenti e violenti. Far capire che violenti non sono solo i criminali, ma anche tutte quelle persone che usano la forza nelle relazioni con gli altri. Le donne devono denunciare i comportamenti violenti prima che sia troppo tardi. Perché si crei un percorso di presa in carico della vittima, senza soluzione di continuità. Perché si intervenga fortemente, unitamente e convintamente a scardinare una cultura avvilente, che ci costringe tutti in comportamenti coatti, lontani da una civiltà delle relazioni che sappia farci vivere felicemente. Quello che deve cambiare è la cultura della società. A cominciare dalle scuole, dalla famiglia, dai linguaggi, dell’informazione, dalle leggi. Occorre mettere insieme i diversi pezzi della società, creare un dialogo fra loro, una sussidiarietà continua. Nessuno si può sentire escluso dall’appello ormai cogente e non più rimandabile di farsi prossimo rispetto alle violenze che devono essere riconosciute e intercettabili. Perché la violenza contro le donne non è soltanto un problema di chi la subisce, ma è un problema di tutte e tutti. Ricordiamolo: siamo noi il 25 novembre.
Laura Fasano
Vice direttore emerito de Il Giorno