Li portano in grembo per nove mesi, li partoriscono anche con dolore, li nutrono, crescono, curano e fanno per loro ogni sacrificio ma, no, il cognome non possono darglielo. I figli prenderanno automaticamente quello del padre e le madri vedranno estinguersi il proprio. La scusa è che c’è sempre qualcosa di più importante e urgente: il Covid, il lavoro che non c’è, le tasse da abbassare, l’emergenza immigrazione, l’inquinamento e il riscaldamento globale. Tutto è più importante di una legge sacrosanta come quella del cognome materno e quindi non è mai il momento per porre fine ad una palese quanto secolare violazione della parità di genere. “Indifferibile” , così era stata definita la riforma che avrebbe dovuto rendere sempre possibile e semplice scegliere il cognome maternità nel nostro Paese. Era il 2016 e da allora, quando la Corte costituzionale si è pronunciata, sono passati ben 4 anni senza che quella indicazione si sia tradotta in realtà. Ancora oggi, chi volesse optare per il cognome della madre invece che per quello del padre (oppure adottarli entrambi) si trova a dover affrontare una serie di difficoltà burocratiche e paletti. Cinquant’anni di battaglie non sono bastati a cambiare alcune leggi, come quella del 1975 che prevede che una donna, al momento di sposarsi, aggiunga al proprio cognome quello del marito. Al momento le uniche modifiche alle procedure per cambiare il cognome riguardano gli orfani di femminicidio per i quali non è richiesto il consenso dell’altro genitore. Invece sarebbe indispensabile adottare questo iter per tutti, con la possibilità non solo di aggiungere il cognome della madre, ma anche di anteporlo a quello paterno o assumerlo come unico, entrambe opzioni oggi impossibili. Chiunque voglia semplicemente aggiungere il cognome materno, poi, al momento deve amarsi di pazienza e tempo. Ci vuole circa un anno, occorre presentare richiesta in Prefettura, va sentito anche l’altro genitore, ma soprattutto bisogna prepararsi ad una serie di inconvenienti, come il cambio del codice fiscale con tutte le conseguenze burocratiche del caso. Come facciamo ad insegnare alle cittadine di domani che sono pari ai cittadini uomini se già dalla nascita si da’ per scontato che porteranno il cognome del papà, quello del “maschio di casa” come si diceva un tempo? La modernizzazione del Paese inizia anche dalle nostre case, dal nostro quotidiano, dai messaggi che mandiamo ai nostri figli, all’interno dell’ambiente domestico. La possibilità di scegliere quale cognome tramandare rappresenta una necessaria battaglia di civiltà. Uno di quei piccoli passi necessari al nostro Paese per colmare alcune diseguaglianze che ancora permangono in materia di diritti civili. Non è una rivendicazione solo femminile, al contrario riguarda tutti. Senza dimenticare che anche in questo campo il silenzio del legislatore è soltanto la punta dell’iceberg sotto la quale si cela una società divisa tra tradizione da un lato e tutela dei diritti fondamentali dall’altro. La nostra storia ci mostra infatti che l’ostacolo più difficile da sormontare non è necessariamente la lentezza dell’iter parlamentare, ma piuttosto il sostrato culturale che sta dietro questa lentezza e che ha fatto si che, fino ad oggi, il nostro Parlamento accantonasse la questione. Più che per una carenza tecnica, dunque, la legge sembra arenarsi per un impedimento di carattere sostanziale: la resistenza a riconoscere la sostanziale parità fra padre e madre. Nel resto d’Europa tramandare il cognome materno rappresenta già da tempo una realtà. In Francia i genitori possono scegliere fra le due possibilità o entrambe, in Spagna vige la regola del doppio cognome e i genitori possono accordarsi sull’ordine. In Germania i genitori possono dare ai figli il cognome di famiglia, se lo hanno definito. È evidente il gap accumulato dall’Italia rispetto ad altri Paesi a noi vicini per cultura e civiltà giuridiche. Tanto che diversi organismi internazionali si sono pronunciati richiamandoci ad una doverosa coerenza con alcuni orientamenti già affermati a livello europeo. Primo fra tutti il rispetto dei diritti fondamentali previsti dal Trattato di Lisbona, verso il quale siamo ancora inadempienti. Ci sono Paesi dove le donne sono invisibili perché vestono il burka, non hanno libertà civili, non hanno possibilità di autodeterminarsi. E ci sono Paesi, come il nostro, dove i retaggi della società patriarcale, in larga parte superati, continuano a manifestarsi attraverso segnali più sottili, privazioni meno appariscenti, atteggiamenti meno agggressivi. Ma non per questo meno importanti.
Laura Fasano * Vice direttore emerito de Il Giorno