Finisce tristemente così. Ad un anno dai Mondiali, da quei Mondiali che tanto entusiasmo avevano sollevato, si torna all’anno zero del calcio femminile. Nel momento in cui era più importante finire (come gli uomini, più degli uomini) per dimostrare di meritare l’agognato professionismo, le signore del pallone italiano segnano un autogol che avrà pesanti ripercussioni nel tempo. Con l’allegria dei naufragi la settimana scorsa le calciatrici hanno rifiutato seccamente l’ipotesi di disputare i playoff e i playout in sede unica a fine luglio con protocolli sanitari garantiti. Un accordo, quello sottoscritto con la FIGC, che accontenta tutti, ma che rivela una pericolosa strategia miope. Prima le giocatrici chiedono gli stessi protocolli dei maschi (con i club che si rifiutano di applicarli), poi pretendono il professionismo salvo non essere in grado di completare sei giornate sei di campionato.
Tra furbizie, meschinità, improvvisazione e pochi investimenti il calcio femminile italiano si è dimostrato più che mai in questa situazione emergenziale prigioniero di una mentalità retrograda e dilettantesca. Con il risultato che ci rimettono tutti, movimento, immagine, Sky che trasmetteva il torneo, soprattutto futuribili investimenti e sponsor. Ci rimette soprattutto la povera Nazionale che da settembre dovrà disputare, in condizione oggettivamente difficili, le qualificazioni europee. E pensare che solo 12 mesi fa le ragazze in pantaloncini e scarpette avevano fatto innamorare un Paese intero, facendo lievitare l’interesse nei confronti del calcio femminile con un’irresistibile miscela di gol e sorrisi. Ci avevano fatto scoprire un calcio dove si protesta civilmente, non si viene alle mani, si attacca sempre e pazienza se poi si perde, si sorride molto e non ci si lamenta mai. Perché le donne del calcio sono meno cattive negli scontri, fanno falli meno duri, quando cadono non simulano e riprendono il loro posto di corsa. Perché sanno che non possono perdere inutilmente tempo, il loro è un messaggio di sportività e di rispetto delle avversarie che non sempre caratterizza le partite degli uomini. Che siano sposate o single, carine o meno, avevano dato un’immagine di unione senza stereotipi. Quelli li avevano lasciati ai maschi detrattori che arrivano a schiumare rabbia perché il mondo del calcio non è più solo loro, che per decenni hanno sostenuto che le esponenti del genere femminile non dovrebbero calcare i campi di calcio, neppure negli anni dell’infanzia, per il bene dei ragazzini, intimiditi nelle marcature e in imbarazzo negli spogliatoi, ma anche delle ragazzine stesse, costrette a pratiche maschili da padri non rassegnati all’idea di aver avuto una figlia. Sgomitando le ragazze insomma stavano cercando la loro identità anche con un pallone fra i piedi. Le società più organizzare – Juventus, Milan, Fiorentina, Roma, Sassuolo e Hellas Verona) avevano tracciato il solco affidandosi ai rispettivi club maschili. Il report del Centrostudi della FGCI aveva attestato quasi 24mila calciatrici tesserate (vent’anni fa erano 8mila). Il calcio femminile, quindi, contava. Almeno qualcosa, per qualcuno. Ecco perché ignorando questa crescita, assumendo decisioni scellerate come sospendere definitivamente il campionato rischiamo di restare esclusi da una cerchia a cui invece per tradizione l’Italia dovrebbe appartenere. Avere un movimento femminile migliore converrebbe a tutti, soprattutto agli spettatori che avrebbero una nazionale e dei club migliori e quindi un prodotto più interessante, o quanto meno una nuova esperienza sportiva. Al momento però la situazione è desolante e guardare oltre al presente non è semplice e forse è richiesto un coraggio troppo grande. Il calcio femminile – questa è la dura realtà – non si scontra solo con gli ostacoli che tutti i movimenti incontrano nel momento in cui iniziano a crescere, ma anche con problemi culturali e politici, che affondono le radici proprio in quelle istituzioni che dovrebbero impegnarsi a sostenerlo. È un problema difficilmente risolvibile, che tira in ballo il concetto stesso di uguaglianza e che non si può pensare di risolvere semplicemente affidandosi al mercato economico, che di fatto condannerebbe cinicamente il calcio femminile al semi-dilettantismo, che tira in ballo il concetto stesso di uguaglianza. Ovviamente ognuno è libero di pensare che sia giusto così, da parte mia lasciatemi difendere la causa di una bambina che si appassiona al calcio. La causa di una ragazza di talento, che vorrebbe fare del calcio la propria vita, senza guadagnare milioni, ma neanche essendo costretta a farlo come secondo o terzo lavoro. La causa di una donna che è disposta a sudare, soffrire e allenarsi duramente per mettersi un giorno la maglia della Nazionale, e che non debba rinunciarci perché in Italia il calcio non è considerato uno sport per donne. Per questo è il momento di pensare in grande: affrontando l’emergenza e rilanciando, nello stesso tempo, il passaggio al professionismo. È un percorso che non serve solo a dare sacrosanti diritti alle ragazze, ma a migliorare gli impianti in cui si gioca, a dotarsi di strutture medico-sanitarie all’altezza, a investire in politiche di promozione del comparto, a professionalizzare tutti quelli che vi lavorano.
Luara Fasano
* Vice direttore emerito de Il Giorno