Psichiatria Asl Vercelli-Valsesia, circa 300 pazienti seguiti a casa

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sant'andrea vercelli
Il presidio del S. Andrea di Vercelli
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Un effetto “diga” per contenere l’emergenza anche sul piano del supporto psichiatrico. È una metafora che ben sintetizza il lavoro realizzato in questi mesi di emergenza Covid dalla psichiatria dell’Asl Vercelli – Valsesia. Un lavoro di squadra – attuato e sviluppato anche in sinergia con la psicologia ospedaliera – che ha visto gli operatori impegnati all’interno e soprattutto all’esterno delle mura ospedaliere.

Fin dai primi giorni in cui la pandemia ha preso il sopravvento è, infatti, emersa in modo pressante la necessità di venire incontro alle esigenze di quei pazienti psichiatrici più complessi e fragili abituati a una quotidianità fatta di visite, di terapie, di incontri presso il centro di salute mentale e i centri diurni. Prassi consolidate che per questi utenti sono parte integrante di un percorso di cura che non può e non deve subire stop. Così psichiatri, infermieri ed educatori sono scesi direttamente in campo, ma questa volta a casa del paziente per attuare quelli che si definiscono “interventi riabilitativi di tipo occupazionale”. Circa 300 i pazienti seguiti a casa tra l’area nord e l’area sud dell’Asl di Vercelli con una media di 80 visite domiciliari a settimana.

“I pazienti psichiatrici più fragili – spiega il direttore della Psichiatria dell’ASL VC Luca Tarantola – non devono sentirsi abbandonati ed è, dunque, fondamentale assicurarsi che anche i gesti quotidiani, come quelli di vestirsi, mangiare con regolarità o dormire, siano mantenuti il più possibile. Questa esperienza ha rafforzato ancor di più un principio, per molti versi noto, e cioè che gli interventi di psichiatria funzionino meglio al di fuori di un contesto ospedaliero. Gli utenti affetti da una patologia psichiatrica – in uno spazio confortevole e abituale – sono più portati ad utilizzare le loro risorse e ciò da più valore anche ai nostri interventi. Nel momento in cui tutto si chiudeva e tutti rimanevano a casa, infermieri ed educatori si recavano al domicilio dei pazienti per proseguire i trattamenti, consapevoli che quel luogo potesse divenire davvero uno “spazio negoziale” in cui il paziente è ben disposto ad attingere alle proprie risorse valorizzando così anche l’azione riabilitativa”.

E se l’assistenza psichiatrica domiciliare ai tempi del coronavirus ha permesso una continuità nelle cure, al tempo stesso in ospedale è emerso un bisogno crescente di supporto per pazienti e familiari, ma anche per gli operatori.

“Il momento dell’emergenza legato alla pandemia – sottolinea la dott.ssa Silvia Ferraris – responsabile dell’SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura) dell’Ospedale S. Andrea – è coinciso per noi con l’urgenza di mettere in atto azioni utili sia a chi viveva il dramma di una malattia fortemente isolante, sia ai molti colleghi impegnati in prima linea. Così ci siamo recati nei reparti e – in collaborazione con i colleghi della psicologia – abbiamo fatto da filtro, anche favorendo la comunicazione in videochiamata tra pazienti e familiari, accompagnandoli anche in momenti molto delicati e complessi. Un ascolto costante che abbiamo manifestato ai colleghi in prima linea, provati spesso sul piano emotivo dagli effetti di una patologia mai vista. È prevalsa l’idea che fosse più che mai necessario “sporcarsi le mani” per lasciarsi contagiare dalle emozioni; ci siamo confrontati con la sofferenza in un momento in cui la prassi di dover porre un certo grado di funzionale distacco, comunque consolidata in medicina, con il coronavirus è venuta meno”.

“Il covid – conclude il dott. Tarantola – ha imposto a tutti noi la necessità di sviluppare non solo nuovi modelli organizzativi, ma di ripensare in toto il nostro agire e il nostro approccio assistenziale. La psichiatria dopo il covid , pur nel rispetto delle norme esistenti, può trovare nuove modalità di sviluppo sempre più in rete con il terzo settore, con il territorio e con il mondo delle associazioni”.