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Don Michele Valsesia: «In ospedale, la distanza come sofferenza e la generosità come una lezione di vita»

«Sono i giorni più difficili che avremmo potuto immaginare e il dramma della Passione non è mai stato così reale e autentico.

Leggete il nostro settimanale; GRATIS per tre mesi: scoprite come Siamo stati privati, per motivi legittimi, di tutto ciò che davamo per scontato e ci siamo scoperti fragili. La nostra vita non è mai stata così in attesa e piena di speranza nella Risurrezione, nella Provvidenza». È il pensiero del cappellano dell’Ospedale Maggiore di Novara, don Michele Valsesia, formulato in occasione del momento più sacro per il cristianesimo: la Santa Pasqua.

«Anche in questi frangenti, pur spaventati e preoccupati, abbiamo pensato a costruire insieme – prosegue il sacerdote –: proprio come avvenuto sul fronte scolastico, le nostre parrocchie hanno intrapreso iniziative digitali volte a proseguire la catechesi e a promuovere occasioni di incontro». Un’opportunità straordinaria l’informatica, ma che ben presto ha mostrato i suoi limiti, primi fra tutti l’assenza di prossimità e condivisione. «Non è solo questione di trasmettere dei contenuti o interagire – precisa don Michele – ma di sperimentare insieme, nel medesimo spazio». Non a caso, uno dei risvolti più pesanti del distanziamento sociale è la solitudine.

«Fin dai primi di marzo ci è stato vietato l’accesso ai reparti: una scelta obbligata, non aggirabile, che ha procurato tanta sofferenza. Come cappellano, e come uomo, sapevo bene che proprio lì, in quelle corsie, dietro a quelle finestre, c’era più bisogno della mia presenza. Di momenti di ascolto e dialogo, di gesti di conforto, rivolti tanto ai pazienti – provati dalla malattia e dall’isolamento – quanto ai medici, agli infermieri e ai professionisti sanitari chiamati a fronteggiare l’emergenza e a gestire ogni genere di imprevisti. Uomini e donne di tutte le età, che non si sono mai fermati per consentire al nostro ospedale – avamposto di questa battaglia contro il virus – di operare al meglio delle sue possibilità».

Poche le occasioni di incontro con i familiari, quasi sempre volte «a invocare una preghiera o a esternare l’immensa sofferenza dettata dal non poter essere accanto ai morenti. Condizione che è pesata moltissimo anche sugli operatori che quotidianamente incontro sul sagrato della chiesa parrocchiale, sempre aperta».

Un pensiero particolare don Michele lo rivolge poi «a chi è rimasto a casa» per proteggere se stesso e gli altri: «tra le tante cose che la pandemia ci ha insegnato c’è la responsabilità personale, il non fare le cose per obbligo ma perché giuste. Una lezione di vita, quasi una sorta di esame conclusivo del seminario per laici».

I segnali della voglia di non arrendersi però non mancano: «sono quelli, piccoli, che ritroviamo anche nei colloqui telefonici, soprattutto con gli anziani, che ci insegnano senso e significato dei gesti di gratuità e il valore dell’amicizia. Gesti che aiutano a non abbandonarsi al pessimismo, a guardare avanti, a non perdere la fiducia e a tenere testa e cuore aperti alla speranza». 

Michela Chioso: