Erano in otto, ne sono rimasti quattro. E lui – uno dei quattro – ha corso il rischio di non essere qui a raccontarci la sua esperienza. È Francesco Maria Cusaro, contagiato dal Coronavirsu e – per certi versi – ritornato a vivere. Cinquantottenne, sposato con un figlio ventottenne, un ceranese e anche uno dei tanti italiani che è passato, per fortuna uscendone, da quella stretta fessura che si presenta di fronte a molti malati di Covid, uno spazio che da una situazione compromessa porta al pieno recupero.
«Tutto – ci spiega Cusaro – è cominciato il 22 febbraio, quando sono stato ospite di una conferenza a Melzo. È stato lì che ho contratto con altre sette persone il virus. I primi sintomi li ho avuti il 2 marzo: tosse secca, febbre e fame d’aria. Domenica 8 marzo, dopo un peggioramento, sono stato portato in isolamento nel reparto di infettivologia presso l’Ospedale Maggiore di Novara». In quella stanza Francesco ha vissuto momenti terribili «Segnati – ci dice – dall’ansia di non avere intorno a me nulla di familiare. Avevo un compagno di stanza che era in una situazione difficilissima, capivo bene quando stava male. Pensavo a lui e anche me. Non riuscivo a togliermi dalla testa che, delle otto persone che avevano preso il virus in quel giorno di Melzo, quattro non ce l’avevano fatta. E anche io avevo paura di non farcela». Ciò che si vede sui giornali é poca cosa rispetto a ciò che si prova sulla propria pelle. Qualche cosa che spinge ad aggrapparsi agli occhi di medici e infermieri. «Dico agli occhi, perché tutti coloro che ti assistono sono completamente coperti. Mi ricordo proprio lo sguardo di un infermiere che in ogni momento di paura o di sofferenza, allungava verso di me la mano e un sorriso, aiutandomi ad ogni ostacolo. Mi ha trasmesso il messaggio che era al mio fianco, era lì per sorreggermi e per farmi risalire alla vita». Con il compagno di stanza si è creato un legame di solidarietà fraterna, di responsabilità reciproca. «Poi lui è peggiorato ed stato trasferito in terapia intensiva».
Queste storie, tra sofferenza e speranza, Francesco le ha raccontate
quotidianamente sulla sua pagina Facebook, un diario scritto sul bordo del precipizio, fino a quando sono cominciati i primi barlumi di normalità. Il primo è stato un risotto al rosmarino, «confezionato in un contenitore – spiega Francesco – con coperchio termosaldato. Forse è solo una impressione, ma è da quel risotto che mi ero imposto, che credo sia cominciata ad emerge la forza di reagire, di difendermi da questo male che azzera. Il momento più difficile nella fase della guarigione è stato distogliere il mio sguardo da quello del mio compagno di stanza, prendere le mie cose, lasciare la nostra stanza per tornare a casa. Ma ora so che anche lui ce l’ha fatta e sono felice».
Ad esperienza conclusa, Francesco riflette: «La sofferenza responsabilizza verso chi soffre. Una sofferenza per me positiva: mi ha aperto gli occhi con nuovi sguardi. Tutti noi tendiamo a guardare in alto, a desiderare, a cercar di raggiungere qualche cosa di più, scordandoci di quante cose abbiamo già e di quanto utili potremmo essere a chi non possiede quanto abbiamo noi». Questa coscienza-autocoscienza del bisogno potrebbe tradursi in un gesto concreto: il dono del proprio plasma a chi si sta ancora curando. Se ci saranno le condizioni e se l’esperienza dei sanitari lo certificherà come utile, la sua esperienza diventerà un sollievo per altri. «Lo spero – dice – intanto penso di raccogliere i miei pensieri e altre testimonianze per condividerle, perché possano essere utili alla gente del mio paese».
Laura Politi