E’ stata una figura di primissimo piano nella Chiesa universale, tra le grandi autrici di spiritualità monastica in epoca moderna e prima donna a preparare i testi della Via Crucis per Giovanni Paolo II nel 1993. Scompare con la 87enne madre Anna Maria Cànopi, badessa emerita dell’abbazia Mater Ecclesiae sull’isola di San Giulio, la fondatrice di uno dei più importanti presidi spirituali del nostro Paese, scrittrice di profondissima spiritualità le cui opere sono state tradotte nelle principali lingue europee. È spirata circondata dalla preghiera e dall’abbraccio delle sue oltre 70 monache nella festa del Transito di San Benedetto. I funerali saranno celebrati dal Vescovo (qui il suo messaggio cordoglio) lunedì 25 marzo alle 11 nella basilica di San Giulio.
La badessa madre Maria Grazia Girolimetto l’ha ricordata commossa con la sua comunità con gli stessi versi da lei composti: «E quando giungerà la sera / cui segue la notte e non più l’aurora / ripetimi, Signore, la Parola / quella che mi ha dato speranza ogni mattina / quella che mi ha dato pace ogni sera: “Io sono con te”» (AMC). «Questa “parola” preziosa, che ha accompagnato la nostra carissima Madre Fondatrice per tutti i giorni della sua vita – scrivono le monache – ora è Lei stessa a ripeterla a noi e a tutti coloro per i quali ha pregato e si è donata a Dio, che ha amato e che l’hanno amata».
Madre Anna Maria, al secolo Rina Cànopi, era nata nel 1931 nel Piacentino. Dopo esser stata assistente sociale in un centro di tutela minorile ed aver amato la letteratura e la poesia, era entrata nell’abbazia di clausura di Viboldone a 29 anni e cinque anni dopo aveva emesso i voti solenni. «La “penna” – ricorda madre Girolimetto – diventò il suo principale strumento di lavoro: quella penna che aveva pensato di lasciare fuori dalla clausura, il Signore gliela rimise in mano, per non togliergliela più fino agli ultimi, ultimissimi giorni», come i nostri lettori hanno potuto apprezzare con gli articoli di spiritualità che non ha cessato di inviare anche nelle scorse settimane al nostro settimanale.
«Per vivere bene la vecchiaia – ci aveva detto tempo fa in un’intervista – occorre avere un orizzonte: tenere lo sguardo fisso al Cielo. È questo che ci sostiene: avere un orizzonte alto, non fermarsi alle cose di questa terra. Un proverbio indiano dice che si nasce vecchi, si deve morire giovani: la vita non è altro che un passaggio, un trasferimento dalla dimensione temporale a quella eterna. Umanamente la morte è un momento di grande sofferenza. Ma la persona che muore non è annientata: vive in Dio. La Risurrezione è una realtà, a Gerusalemme la sua tomba è rimasta vuota. È questo il fondamento della nostra speranza; è questo anche che ci fa accettare la malattia e il decadimento fisico senza angoscia, poiché lo spirito non muore, e alla fine anche la nostra carne rifiorirà».
Dopo vari incarichi da parte della Conferenza episcopale italiana per la revisione della Bibbia, nel 1973 aveva ricevuto da mons. Del Monte la richiesta di fondare un monastero sull’isola di San Giulio, dove approdò con altre cinque monache l’11 ottobre 1973. Da allora, oltre ad attrarre costantemente nuove vocazioni, l’abbazia ha conosciuto un rapidissimo sviluppo.
Carismatica, essenziale e riservata, con il suo sguardo magnetico e il sorriso aperto ha trasformato “lo scoglio” sull’isola di San Giulio come Lei chiamava il monastero in una “oasi di ristoro per molti cercatori di Dio” oggi frequentata da oltre 10mila visitatori all’anno. Oltre 160 oblati laici dentro e fuori dalla nostra diocesi sono stati formati dal suo esempio e insegnamento a vivere la spiritualità benedettina ora et labora nella vita quotidiana e in tutti gli ambienti professionali. «Io non credo – ci diceva – che si possa essere davvero atei, ma so che ci sono persone non ancora consapevoli di avere bisogno di Dio. Non c’è uomo sulla terra che non aneli a Dio: non cercare Dio sarebbe come non anelare alla vita. Tutti portano inscritto dentro di sé questa esigenza, questa ricerca perenne di Dio, alla quale non sempre sanno dare un nome».
Con piena dedizione alla preghiera e al lavoro, con gli scritti e la vastissima corrispondenza ha svolto il suo servizio “dell’ascolto e della parola” all’insegna del suo motto humiliter amanter, “Umilmente amando”, sfociato nel motto dell’intera comunità monastica composta oggi da un piccolo esercito di 70 monache, con sei novizie e sei postulanti, Funda nos in pace.
«Oggi – diceva a proposito delle vocazioni – si parla spesso di un’Europa secolarizzata, scristianizzata: è vero, ma io non sarei del tutto pessimista perché vedo che il seme rimane sempre e che, malgrado tutte le difficoltà, lo Spirito continua a prevalere sulla materia. Che cosa sarebbe stata l’Europa senza il monachesimo? Non sarebbe forse mai esistita e non avrebbe il compito che ancor oggi ha nei confronti delle giovani Chiese. Certo, la secolarizzazione è dilagante ma basta un pugnetto di lievito a far lievitare la pasta. E non si può dubitare che il cristianesimo, pur essendo un piccolo resto, rimane e può fecondare le nostre società con il seme della fede e della speranza».
Un anno fa i primi segni di un crescente affaticamento, nell’estate la decisione di lasciare l’esercizio attivo dell’abbaziato e l’avvio del processo che ha portato lo scorso novembre all’elezione della nuova badessa madre Maria Grazia Girolimetto. Questo è quanto si augurava per il futuro della sua comunità in un recente colloquio: «Che il Signore tenga sempre nelle sue mani – diceva – questa opera che Lui ha voluto. Che tante giovani cercatrici di Dio possano trovare qui il luogo per radicarsi e donarsi al Signore nella preghiera e nel lavoro, e che tanti fratelli laici in cerca di conforto e di sostegno nella loro vita spirituale possano continuare a trovare qui ciò di cui hanno bisogno per affrontare le prove anche tragiche senza cadere nella disperazione, poiché Gesù Cristo è l’àncora della salvezza».