«La nostra è una Chiesa di vicinanza in un Paese di frontiera per l’evangelizzazione, una Iglesia de cercania in quello che è stato e rimane uno dei Paesi più laicisti del mondo» racconta don Giancarlo Moneta, missionario fidei donum della diocesi gaudenziana dal 1979 di stanza a Montevideo, in Uruguay. Di passaggio a Novara nelle settimane dell’ottobre missionario, il sacerdote 66enne racconta le peculiarità della missione in uno dei paesi dell’America latina dove rimane particolarmente forte l’influenza del laicismo anticlericale che tanta parte ha avuto nei processi di decolonnizzazione e di sviluppo di diversi paesi dell’area.
Secondo le ultime statistiche, in Uruguay su una popolazione complessiva di poco meno di 3 milioni e 500mila abitanti, si dichiarano cattolici circa 2 milioni e 600mila ma meno dell’1% sono praticanti.
La parrocchia di don Giancarlo dedicata al santo Curato d’Ars nei pressi del Rio de la Plata, in una delle periferie più povere della capitale, serve una popolazione di circa 25mila persone sparse in cinque quartieri lungo un territorio di circa 12 chilometri per tre. Erano 86 i sacerdoti diocesani nel 1979, quando don Moneta è arrivato a Montevideo: oggi sono meno di 60 (il numero non raggiunge i 300 in tutto il Paese). «Il nostro stile è di frontiera – spiega – nel senso che il lavoro di evangelizzazione che portiamo avanti è più basato sulla pastorale sociale che sul servizio liturgico. Malgrado il laicismo che contraddistingue la cultura sociale e politica del Paese, la Chiesa cattolica resta una delle istituzioni che gode di maggior prestigio e le viene riconosciuto dalla maggior parte della popolazione un ruolo di sviluppo e di vicinanza alle fasce più deboli della popolazione. Nel mio quartiere, ad esempio, proprio perchè la comunità delle persone praticanti e vicine è molto piccola, la partecipazione alle attività è molto viva. Le persone che frequentano i sacramenti avanzano proposte, lavorano sul territorio; e quelli che non frequentano sanno che comunque la parrocchia è lì anche per loro: la Chiesa è percepita come una presenza di servizio alla società. E l’evangelizzazione, in particolare con l’annuncio della Parola, lo studio della Bibbia, è portata avanti stando vicini alla gente, ai singoli e alle famiglie, interessandosi ai loro problemi e alle mille difficoltà di una popolazione in gran parte povera. Capita così che ci siano più adulti che tornano ad interessarsi ad una qualche forma di vita spirituale ed in seguito ai sacramenti che non bambini o giovani che di solito, terminato il catechismo, lasciano le nostre attività. Ecco – dice con un sorriso – posso dire che la nostra è una pastorale de largo aliento come si dice da noi: di lungo termine o di ampio respiro. Certamente stanno prendendo piede anche da noi diverse sette e pratiche devozionalistiche, ma in generale almeno per quelli di noi che vivono in periferia il lavoro continua ad essere quello di una presenza viva, liberante accanto alle persone». E’ anche per questo, dice, che in questa parte del mondo papa Francesco gode di un prestigio immenso e la sua elezione è stata vissuta come un riscatto per l’intero continente sudamericano: «non c’è dubbio che venga percepito come uno dei nostri, uno de nosotros» dice don Giancarlo.
Quella uruguayana poi è una Chiesa che ha dovuto fare i conti prima con la dittatura, poi con il difficile cammino verso la democrazia parlamentare: «in generale i presuli del Paese hanno esercitato un ruolo di coscienza critica anche negli anni duri della dittatura, quando c’era un controllo capillare dell’opposizione da parte degli apparati di sicurezza ed in ogni famiglia c’è stato qualcuno che ha conosciuto il carcere, si parla di almeno il 25% della popolazione, circa 800mila persone. Non parliamo poi dei desaparecidos». Oggi, chiosa, resta la sfida di una maggiore distribuzione della ricchezza in un paese dove gran parte dell’economia resta in mano al settore bancario e alla finanza, ed il trovare giovani preti missionari che vogliano mettersi al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo.