Caselli a Novara il 13 dicembre

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Gincarlo Caselli
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Libera come espressione del rifiuto della società civile ai tentativi di sovvertimento dello Stato da parte delle Mafie e della volontà di rafforzare l’educazione alla legalità. Gian Carlo Caselli, già procuratore capo a Torino e a Palermo, atteso mercoledì 13 al teatro San Lorenzo a Novara alle 20,45 per il decimo anniversario della nascita della sede novarese di Libera, ricorda così il ruolo avuto dal 1995 dalla rete di associazioni contro le Mafie guidata da don Luigi Ciotti sulla scia dell’esaurirsi della spinta della “Primavera di Palermo” degli anni ‘92-94. «Per sconfiggere la mafia – dice – occorre agire contestualmente su tre versanti: primo, quello investigativo giudiziario (arresti, processi, condanne); secondo, quello culturale, fare luce sulla realtà della mafia che in sintesi è proprio quella “montagna di m.” di cui parlava Peppino Impastato, e non il soggetto che certi ambigui programmi televisivi propongono; terzo, quello del coinvolgimento della società civile, poiché se si delega tutto alle forze dell’ordine e alla magistratura gli eventuali successi saranno effimeri». Dopo le stragi del 1992, ricorda il magistrato, «questo coinvolgimento della società civile si è manifestato spontaneamente con le manifestazioni di piazza che per quella Palermo ancora controllata capillarmente da Cosa nostra erano gesti assolutamente nuovi e di grande coraggio. E poi con le lenzuola bianche esposte quasi ad ogni balcone o finestra: bianche come simbolo di richiesta di pulizia, trasparenza, legalità contro la mafia. Ma questa mobilitazione spontanea dopo un paio d’anni si è esaurita ed è allora che nasce Libera, che alla mobilitazione spontanea dei cittadini sostituisce una mobilitazione organizzata che man mano si rafforza ed è ancora oggi meravigliosamente presente sul piano del contrasto di ogni forma di illegalità in particolare sulla mafia e corruzione». Nell’intensa autobiografia scritta con Mario Lancisi Nient’altro che la verità (Piemme, 2015), Caselli reclama «interventi radicali e profondi» dalla giustizia, capaci di incidere significativamene sul versante dell’economia sommersa che in Italia registra cifre da capogiro. L’evasione fiscale, ricorda, ha un business di 130 miliardi all’anno: siamo il terzo Paese al mondo dopo Messico e Turchia. La corruzione secondo le stime della Corte di conti ci costa 60 miliardi di euro all’anno. Il giro d’affari dell’economia mafiosa viene stimato in circa 150 miliardi di euro all’anno. Per un totale di 340 miliardi di economia illegale, ovvero «una montagna di ricchezza che ci viene rapinata come colossali risorse sottratte allo Stato». Ecco perchè, rimarca, anche se la corruzione «non è una caratteristica etnica della stirpe italica», lo specifico del “caso Italia“ «sta nel fatto che il nostro è l’unico Paese tra le democrazie occidentali che in pratica fa poco o niente per rendere la corruzione “non conveniente”». «In Italia la corruzione “conviene” – dice – perché le pene sono basse e quasi nessuno finisce in carcere. I processi sono interminabili, e spesso la prescrizione li inghiotte e li cancella. Soprattutto (e questa è la peggiore anomalia italiana) chi viene trovato con le mani nel sacco continua ad essere ammesso alla tavola imbandita, dove può continuare a rimpinzarsi come se niente fosse. Negli altri paesi democratici non funziona così. In Italia essere implicati in fatti di corruzione spesso “fa curriculum”: perciò la corruzione conviene, ed è per questo che ci sono zone di inefficienza dove si insinua la corruzione».